
Con sentenza n. 22122 del 2 novembre 2016 la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, è intervenuta in tema di pensione per sordi, confermando il fatto che tale pensione non spetti dopo il 65° anno d’età, ma come le altre provvidenze assistenziali, può essere convertita in assegno sociale.
Col ricorso in Cassazione si chiedeva appunto di accertare se la persona sordomuta, titolare di pensione non reversibile per sordi, possa mantenere il diritto alla percezione della prestazione economica, se in possesso dei requisiti reddituali di legge, anche dopo il compimento del sessantacinquesimo anno d’età. Gli ermellini hanno ritenuto il ricorso infondato per i seguenti motivi.
La legge n. 381 del 26 maggio 1970, stabilisce all’art. 1 che a decorrere dal 1969 è riconosciuto ai sordomuti con età superiore agli anni 18 un assegno mensile di assistenza, aggiungendo che agli effetti della legge si considera sordo il “minorato sensoriale dell’udito affetto da sordità congenita o acquisita durante l’età evolutiva che gli abbia compromesso il normale apprendimento del linguaggio parlato, purché la sordità non sia di natura esclusivamente psichica o dipendente da causa di guerra, di lavoro o di servizio”.
Il successivo art. 10 della stessa legge 381, riguardante i sordi ultra65enni, prevede, poi, che con effetto dal 10 maggio 1969, in sostituzione dell’assegno, i sordi, dal primo giorno del mese successivo a quello del compimento dei 65 anni di età, sono ammessi al godimento della pensione sociale.
Praticamente ciò significa che possono beneficiare della suddetta pensione per sordi i sordomuti tra i 18 e i 65 anni, per cui al compimento dei 65 anni di età cessa la corresponsione per coloro che ne erano già titolari, ed in sostituzione è concesso l’assegno sociale.
In effetti, poiché tale prestazione ha natura integrativa del presunto mancato guadagno derivante dalla condizione di minorità dovuta alla patologia, ne deriva che lo stesso non va corrisposto al minore ed all’ultrasessantacinquenne.
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