
Licenziamento del disabile. Con la recente sentenza la Corte di Cassazione (n. 9095 del 31 marzo 2023) ha affrontato il tema della legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto nel caso di lavoratore affetto da disabilità o portatore di handicap.
La Corte ha chiarito che i contratti collettivi che non prevedano un periodo di comporto più lungo per i lavoratori portatori di handicap rientrano nell’ipotesi di “discriminazione indiretta”, dato che il lavoratore disabile è soggetto al rischio di ulteriori assenze per malattia collegate alla propria disabilità.
IL CASO
Il lavoratore, dipendente con mansioni di Spazzino stradale, era stato licenziato per superamento del periodo di comporto. Il Tribunale aveva ravvisato una discriminazione diretta collegata alle condizioni di disabile del lavoratore, riconosciuto portatore di handicap ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 1, con capacità lavorativa ridotta del 75%, inidoneo a diverse mansioni sulla base degli accertamenti sanitari. Tale discriminazione era consistita, secondo il Tribunale, nell’irrogazione del licenziamento (per assenza dal lavoro per 375 giorni nell’arco di 1095 giorni), dovendosi presumere che le assenze per malattia fossero riconducibili alla situazione di disabilità del lavoratore per l’assegnazione a mansioni incompatibili con il suo stato di salute.
Contro la sentenza del Tribunale il datore di lavoro aveva proposto appello. Ad avviso della Corte d’appello, la pronuncia di primo grado era da confermare anche se, in parte, per differenti considerazioni, dovendo ritenersi nella fattispecie “sussistente una discriminazione di natura indiretta. Tale discriminazione era consistita, secondo la Corte d’appello, alla luce del grave quadro patologico del lavoratore, nell’avere la società applicato l’art. 42 CCNL Federambiente al lavoratore licenziato, trascurando di distinguere le assenze per malattia e le assenze per patologie correlate alla disabilità, in contrasto con i principi espressi dalla sentenza della Corte di Giustizia UE con sentenza del 18/1/2018 in causa C-270/16.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello, la società datrice di lavoro ha proposto ricorso per cassazione.
LA SENTENZA
La controversia riguarda l’interpretazione e la portata dell’art. 42 CCNL Federambiente applicato al rapporto che prevede: ” Nei casi di interruzione del servizio dovuta a infermità per malattia o infortunio non sul lavoro debitamente certificata, il lavoratore, non in prova, ha diritto alla conservazione del posto per un periodo, definito comporto breve, di 365 giorni calendariali…”.
L’applicazione della norma contrattuale collettiva in questione al licenziamento del lavoratore dipendente nel caso in esame, per superamento del periodo di comporto breve, è stata ritenuta dalla Corte di merito discriminatoria, per avere la società trascurato, nell’adottare la decisione di recesso, “di distinguere assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità”.
E’ stata ravvisata un’ipotesi di discriminazione indiretta, che ricorre, ai sensi del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 2, comma 1, lett. b), (normativa di attuazione della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000) “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.
La tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda, oltre che sulla della direttiva 2000/78/CE, attuata nell’ordinamento italiano, sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che include il motivo della disabilità nell’ambito dell’art. 21 (che sancisce il divieto generale di discriminazioni) e contiene anche una disposizione specifica (art. 26) che riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità (azioni positive).
E’ inoltre fondata sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con L. n. 18/2009.
Secondo la Corte il lavoratore disabile, proprio a causa della sua disabilità, risulta maggiormente esposto al rischio di assenze dovute a malattia rispetto ad un lavoratore non disabile ed è, quindi, soggetto ad un maggior rischio di accumulare giorni di assenza, raggiungendo i limiti massimi del comporto previsti dalla contrattazione collettiva. Ed è tale rischio a rendere idonea una normativa che fissa limiti massimi di malattia, identici per lavoratori disabili e non, in vista del recesso datoriale per (quale quella sul comporto breve) a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità.
Questo non significa che un limite massimo di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato. Una simile scelta discrezionale del legislatore o delle parti sociali per quanto di competenza, anche ai fini di combattere fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, può integrare una finalità legittima di politica occupazionale. Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio.
La doverosa considerazione dell’interesse dei lavoratori disabili, in bilanciamento con la legittima finalità di politica occupazionale, richiede dunque l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE.
Con riferimento, poi, al riparto dell’onere della prova, gli ermellini ipotizzano la sussistenza di una sorta di “presunzione” di discriminazione, nel senso che al lavoratore spetterà solamente l’onere di allegare e dimostrare lo specifico fattore di rischio (ossia, lo stato di handicap) ed il trattamento che egli assume essere meno favorevole rispetto a quello riservato agli altri lavoratori in condizioni analoghe nonché la correlazione tra questi due elementi. Invece il datore di lavoro dovrà provare la sussistenza di circostanze “inequivoche, volte ad escludere per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta”.
La Corte specifica, altresì, che tale discriminazione opera in maniera oggettiva e prescinde quindi dalla volontà del datore di lavoro, restando irrilevante anche il fatto che questi non possa materialmente conoscere il concreto motivo delle assenze del lavoratore. Questo significa che, secondo la Corte, indipendentemente da qualsiasi volontà del datore di lavoro, l’applicazione al disabile dello stesso periodo di comporto previsto per i lavoratori non disabili costituisce “ex se” discriminazione indiretta, con conseguente nullità del licenziamento irrogato.
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