
La Cassazione, con sentenza n. 18411 del 9 luglio 2019 ritorna ad occuparsi dell’abuso dei permessi di cui alla legge 104 per assistere un familiare disabile grave.
Il caso in esame riguarda un lavoratore che in due delle quattro giornate di permesso legge 104/92, invece di recarsi dalla zia invalida per prestarle assistenza, era rimasto a casa tutto il giorno. Non è la prima volta che la Corte si pronuncia sulla legittimità del licenziamento per abuso dei permessi Legge 104 (Cass. 8310/2019)
L’abuso dei permessi di cui alla legge 104 è stato provato in giudizio da una relazione investigativa prodotta dal datore di lavoro e confermata dall’investigatore in sede di prova testimoniale, che dimostrava come il dipendente in due delle quattro giornate di permesso non era uscito né entrato nella propria abitazione, non prestando l’assistenza al proprio parente; ciò strideva con le giustificazioni rese dal lavoratore in sede di audizione disciplinare nell’ambito delle quali aveva dichiarato di aver prestato regolare assistenza alla zia come era abitudine.
Per tali ragioni la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore e ha dichiarato legittimo il licenziamento.
Di seguito il testo integrale della sentenza.
Corte di Cassazione
Sentenza n. 18411 del 9 luglio 2019
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 79 depositata il 19.1.2018, ha confermato
la sentenza del Tribunale della medesima sede ed ha ritenuto legittimo il licenziamento
per giusta causa intimato da A.I. s.p.a., con lettera del 23 novembre 2015, a A.D. per abuso
dei permessi ex art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992.
2. La Corte di appello, ha, in sintesi, osservato, che poteva ritenersi raggiunta la prova
dell’abuso di due permessi ex art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 risultando –
dalla relazione dell’agenzia investigativa (incaricata dal datore di lavoro), confermata in
sede di prova testimoniale – che il D. nelle giornate del 5 e 8 settembre 2015 non era mai
entrato o uscito dalla propria abitazione nell’arco orario compreso tra le 6.30 e le 21 e,
dunque, non si era recato presso la (diversa) residenza della zia per fornire assistenza,
circostanza che valutata unitamente alle dichiarazioni rilasciate dal lavoratore in sede di
giustificazioni rese ex art. 7 della legge n. 300 del 1970 (che facevano riferimento alla
prestazione di una “regolare assistenza alla zia come era abitudine, ad eccezione di alcune
ore della giornata”) e alla prova ulteriore del mancato avvistamento, da parte degli
investigatori, presso l’abitazione della zia nelle suddette giornate, giustificava il
provvedimento espulsivo per il disvalore sociale ed etico della condotta e la
compromissione irrimediabile del vincolo fiduciario.
3. Per la cassazione di tale sentenza il D. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi. La
società ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 5 della legge n. 604 del 1966, 2119 e
2697 cod.civ., 18, comma 4 della legge n. 300 del 1970, avendo, la Corte territoriale,
illegittimamente invertito l’onere della prova in ordine alla sussistenza della condotta
addebitata al lavoratore e ritenuto legittimo il licenziamento in considerazione della
mancata prova, richiesta al D., di aver effettuato assistenza alla propria zia nelle date del 5
e 8 settembre 2015. Le risultanze della relazione investigativa, fornita dal datore di lavoro,
hanno invero rappresentato solamente un mezzo probatorio ulteriore, impreciso, visto che
l’appostamento effettuato dagli investigatori non risultava corrispondere alla residenza
della zia.
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360,
primo comma, n. 5, cod.proc.civ., avendo, la Corte territoriale, trascurato che il datore di
lavoro è dovuto ricorrere ad un’attività investigativa integrativa, in data 7 dicembre 2015
(ossia dopo il licenziamento del lavoratore), in considerazione della mancata esatta
conoscenza, da parte degli investigatori, del numero civico dell’abitazione della zia del D..
3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 5 della legge n. 604 del 1966, 33
della legge n. 104 del 1992, 1175, 1375, 2119 cod.civ., 18, comma 5 della legge n. 300 del
1970, avendo, la Corte territoriale, trascurato che – essendo emerso che per due dei quattro
giorni oggetto di contestazione (30 e 31 agosto 2015) il lavoratore ha prestato assistenza
alla propria zia – è risultato completamente compromesso il nesso causale tra la condotta
addebitata e il provvedimento espulsivo. La mancata piena prova, ossia puntuale e precisa
sul fatto contestato, ben può essere equiparata ad una prova, se non addirittura
inesistente, quantomeno, parziale, determinandosi un’incertezza idonea a generare un
serio dubbio sull’effettivo abuso e, di conseguenza, sulla durata dell’abuso stesso, atto ad
incidere sulla gravità del fatto e sulla proporzionalità del licenziamento.
4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod.proc.civ., avendo, la Corte
territoriale, condannato al pagamento delle spese di lite il lavoratore soccombente
nonostante lo stesso rimanesse, a causa del licenziamento, privo di reddito.
5. Preliminarmente, non può sottacersi che le svolte censure (nonostante proposte quali
violazioni di disposizioni legali o contrattuali) si traducono in critiche ed obiezioni avverso
la valutazione delle risultanze istruttorie quale operata dal giudice del merito nell’esercizio
del potere di libero e prudente apprezzamento delle prove a lui demandato dall’art. 116
cod. proc. civ. e si risolvono altresì nella prospettazione del risultato interpretativo degli
elementi probatori acquisiti, ritenuto dallo stesso ricorrente corretto ed aderente alle
suddette risultanze, con involgimento, così, di un sindacato nel merito della causa non
consentito in sede di legittimità (cfr. in motivazione, ex plurimis, Cass. 21 ottobre 2014 n.
22283).
Per consolidato orientamento di questa Corte, invero, tale sindacato è configurabile
soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza
impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una
diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della
medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi
acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle
attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo
attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in
un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo
tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai
fini del giudizio di cassazione (in termini, Cass. SS.UU. 25 ottobre 2013 n. 24148, Cass. 4
aprile 2014 n. 8008).
6. Inoltre, va rilevato che i motivi d’impugnazione ripropongono gli stessi motivi di
gravame (dunque, dell’impugnazione per motivi di merito della decisione di primo grado:
“erronea valutazione delle risultanze probatorie” in quanto fondate su un appostamento
effettuato in luogo diverso dalla residenza della zia assistita), e tanto già basta per ritenere
inammissibili i mezzi d’impugnazione svolti per essere avulsi dal paradigma dei motivi
tassativamente fissato dall’art. 360 cod.proc.civ. Invero, secondo il condiviso orientamento
di questa Corte, il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo
schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le
quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la
conseguenza che (visto che per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi,
fornirne la rappresentazione) l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione
giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali
è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e
specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come
tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non
possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito
considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo; in riferimento al ricorso
per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è
espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 cod.proc.civ., n. 4 (cfr,
ex plurimis, Cass., n. 17823/2011; Cass. n. 359/2005).
7. Con particolare riguardo al secondo motivo di ricorso opera la modifica che riguarda il
vizio di motivazione per la pronuncia “doppia conforme”.
L’art. 348 ter, comma 5, cod.proc.civ. prescrive che la disposizione di cui al comma 4 – ossia
l’esclusione del n. 5, dal catalogo dei vizi deducibili di cui all’art. 360, comma 1, – si
applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per
cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado. Ossia
il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia
conforme. Nel caso di specie, per l’appunto, la Corte ha confermato, in sede di reclamo, la
statuizione del Tribunale (emessa in sede di opposizione), che aveva rinvenuto la
legittimità del licenziamento (cfr. Cass. n. 23690/2015, 23021/2014).
In tale ultima ipotesi, pertanto, deve ritenersi del tutto inammissibile la denuncia di vizio
di motivazione. La disposizione è applicabile anche al reclamo disciplinato dall’art. 1,
commi da 58 a 60, della legge n. 92 del 2012, che ha natura sostanziale di appello, dalla
quale consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal
codice di rito, se non espressamente derogata (in tal senso, Cass. n. 23021/2014, Cass. n.
11868/2016).
8. Va, inoltre, rilevato che il controllo di logicità del giudizio di fatto è, nella presente
fattispecie, consentito alla luce dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 5 nella
formulazione successiva alla novella introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. nella L. n.
134 del 2012, trattandosi di sentenza depositata dopo il giorno 11 settembre 2012. Come
precisato dalle Sezioni Unite (n. 8053/2014) è, in tal caso, denunciabile in cassazione solo
l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal
testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
E tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e
grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa
qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
9. La Corte territoriale ha, con motivazione logicamente congrua, affrontato la questione
relativa all’abuso dei permessi ex art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 di due (dei
quattro) giorni contestati al lavoratore osservando che la relazione investigativa prodotta
dal datore di lavoro (e confermata dall’investigatore in sede di prova testimoniale)
dimostrava che il D., nelle giornate del 5 e 8 settembre 2015, non era uscito né entrato nella
propria abitazione in orario compreso fra le 6.30 e le 21,00; ciò strideva insanabilmente con
le giustificazioni rese dal lavoratore in sede di audizione disciplinare (nell’ambito delle
quali aveva dichiarato di aver prestato regolare assistenza alla zia come era abitudine, ad
eccezione di alcune ore della giornata), considerato altresì che il D. non aveva mai dedotto
di aver prestato assistenza in orario precedente le 6.30 o posteriore alle 21.00; inoltre, prova
ulteriore (che si aggiungeva a quella “dirimente” innanzi citata) della mancata assistenza
alla zia doveva ritenersi fornita dall’appostamento dell’investigatore altresì nella strada
ove era ubicata l’abitazione della zia, non esplicando incidenza determinante l’errore di
due numeri civici quale sede dell’appostamento, trattandosi (come riferito dai testimoni)
di strada “a senso unico e molto stretta”, con numeri civici “adiacenti”.
10. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile, quanto alla dedotta violazione dell’art. 91
c.p.c., trattandosi di censura apparente, che in realtà si limita a contestare il regolamento
delle spese come riflesso della contestata decisione di merito. Ma, anche ove fosse
ipotizzato il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ. la censura sarebbe
infondata, perché è solo la compensazione delle spese, e non già l’applicazione della regola
della soccombenza, cui il giudice si sia uniformato, a dover essere sorretta da motivazione,
trattandosi di circostanze discrezionalmente valutabili e perciò non costituenti punti
decisivi idonei a determinare una decisione diversa da quella adottata (cfr. Cass. del 23
febbraio 2012 n. 2730).
11. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese di lite del
presente giudizio seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ. e
sono liquidate come da dispositivo.
12. Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore
della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha
integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del
seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è
dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un
ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa
impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice da atto nel
provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo
di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso in questione
(avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi
in conformità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi nonché in euro
4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori
di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello
stesso articolo 13.
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